IL BAMBINO CATTIVO: UNA DELLE FAVOLE PREDILETTE
DEGLI STUDIOSI
La cecità fisica innata, nella maggior parte dei casi, è irreversibile. Invece la cecità emotiva che mi accingo a descrivere non è innata. È la conseguenza di una rimozione di sentimenti e di ricordi che rende l'individuo, in seguito, cieco di fronte a certe precise connessioni. Questa cecità non è irreversibile, perché ogni individuo può a un certo punto decidere di far cessare la rimozione. Ovviamente, in un simile momento, ha bisogno dell'aiuto di altre persone, un aiuto che può trovare soltanto se è davvero risoluto a confrontarsi con la verità.
Che il singolo individuo colga o meno quest'occasione dipende, in elevata misura, dal modo in cui si è svolta la sua infanzia; se è stata simile, insomma, a un regime totalitario che non offriva altre istanze che non fossero quelle poliziesche, oppure se il bambino ha avuto in qualche caso l'occasione di sperimentare qualcosa di diverso dalla crudeltà, tanto da potersi rifare, da adulto, nella sua situazione attuale, a quella buona esperienza.
L'incontro con la propria storia non si limita a rimediare alla cecità che il bambino aveva dato per scontata, ma indebolisce anche il blocco mentale ed emozionale. È un punto sul quale tornerò in seguito: ora vorrei dimostrare, esempi alla mano, come funziona questa cecità e come influenza il modo di pensare degli uomini.
In una rivista statunitense (Arni Jones, Mothers Who Kilt, in «The Newdays Magazine», 19 ottobre 1986) si analizza per molte pagine il problema di cosa possa indurre una donna a uccidere il suo bambino. Un infanticidio appena commesso, l'uccisione di una lattante di otto mesi, funge da punto di partenza per una serie di considerazioni di carattere generale.
Innanzi tutto è descritta la situazione: una giovane donna è sola in casa con il figlio di tre anni e la figlia di otto mesi. Ha appena avuto una sgradevole conversazione telefonica con suo padre, e vorrebbe riferirne alla sorella, però la piccina le impedisce continuamente di parlare, non la smette di strillare. La donna non riesce a sentire la voce della sorella, si dispera sempre di più e improvvisamente colpisce la piccola con il ricevitore del telefono, fino a farla tacere. E così diventa un'infanticida pur non avendo avuto l'intenzione di uccidere. Voleva soltanto liberarsi di quegli strilli insopportabili.
L'autrice dell'articolo illustra la situazione di grave disagio che la donna in questione aveva patito durante l'infanzia. Il padre era un alcolizzato che s'aggirava spesso per casa armato d'un coltello, minacciando di uccidere le due figlie. Le picchiava sistematicamente e aveva cominciato ad abusare sessualmente di loro fin da quando erano piccole. In un'occasione aveva strappato una delle bambine dal sonno e, servendosi della camicia da notte di lei, l'aveva appesa a un chiodo infisso in una parete, tenendola lì per tre ore. I genitori avevano appena litigato e la madre aveva abbandonato il padre proprio la sera in cui lui aveva poi appeso la figlia al muro. Già questi esempi mostrano a che tipo di torture la futura infanticida era stata a sua volta esposta da bambina. Nemmeno negli anni seguenti, da ragazza, era stata mai messa nella condizione di poter fare quello che avrebbe voluto: studiare, per esempio. E poi si era ritrovata incinta, sempre contro la sua volontà, e non le era stato consentito di abortire. Il ruolo di madre le era stato imposto sia dal partner immaturo, sia dai medici chiamati a esprimersi sul suo caso e che le avevano negato il diritto di abortire: e infine aveva ucciso la sua stessa creatura. Ed è significativo che l'abbia fatto proprio nel momento in cui cercava, vanamente, di spiegare il suo stato d'angoscia. Stava tentando di trovare un po' di sollievo in una conversazione telefonica, forse di raccontare alla sorella quello che il padre, nella telefonata precedente, aveva per l'ennesima volta preteso da lei, ma gli strilli della bambina le avevano impedito di farlo. La piccina le aveva imposto di assumersi il ruolo di madre in un momento in cui era meno che mai preparata a farlo, l'aveva costretta a reprimere la sua angoscia, ancora una volta, come già altri avevano fatto in passato. Però lì, in quel caso, aveva potuto 'difendersi' infierendo sulla creatura più debole.
Più tardi, in prigione, aveva messo al mondo un altro bambino e — ancora una volta — non aveva trovato nessuno attorno a sé capace di cercare, assieme a lei, le cause di quell'insensato succedersi di vite generate e distrutte. Nemmeno l'articolo in questione vi si sofferma. L'infanzia della donna, sommariamente descritta nella parte iniziale, è poi rapidamente accantonata, e si enumerano invece una serie di circostanze della sua vita adulta come cause scatenanti dell'infanticidio: i partner, i comportamenti degli uomini con cui aveva avuto a che fare, l'indigenza. L'articolo conclude affermando che quando una madre uccide suo figlio, la colpa è di questi fattori. Cita vari esperti, considera varie teorie, fa una serie di proposte e chiede che siano svolte delle ricerche capaci finalmente di accertare scientificamente le ragioni per cui la società induce certe donne a uccidere i loro figli.
Quello che era evidente all'inizio dell'articolo, diviene poi una cosa quasi imperscrutabile. Perché? Per una ragione semplicissima, la stessa che era stata probabilmente determinante anche nella rimozione della verità da parte di Sigmund Freud nel 1897 (vedi capitolo 4).
Proviamo a figurarci di essere stati abbandonati da nostra madre, da bambini, di essere stati appesi a un muro per tre ore, in camicia da notte, esposti all'arbitrio di un padre infuriato, e cerchiamo poi anche di immaginare quali sentimenti questa situazione poteva suscitare in noi. Ci rifiutiamo persine di pensarlo, perché un tentativo simile ci rimanderebbe oscuramente a situazioni analoghe di cui non vogliamo ricordarci a nessun costo. Cosa può fare un bambino lasciato completamente solo in preda a una paura panica, alla rabbia impotente, alla disperazione e al dolore? Non può nemmeno piangere, per non parlare di gridare, se non vuole essere ucciso. L'unico modo di liberarsi di queste sensazioni è di rimuoverle. Ma la rimozione è una illusione ingannevole. È d'aiuto sul momento, ma il prezzo di quest'aiuto dovrà essere pagato in seguito. La rabbia impotente torna a rivivere nel momento in cui viene al mondo un figlio proprio, e allora finalmente può sfogarsi, di nuovo a spese d'una creatura indifesa.
Se un bambino deve impiegare tutte le sue facoltà ed energie nel lavoro di rimozione che gli è sul momento assolutamente necessario, e se — in aggiunta — non ha mai avuto modo di sperimentare l'amore e la protezione di qualcuno, non sarà capace in futuro di proteggere se stesso e di organizzare la pròpria esistenza in un modo assennato e produttivo. Si tormenterà in altre relazioni devastatrici, si unirà a partner irresponsabili e soffrirà per causa loro, senza però riuscire a rendersi conto o quasi che all'origine di tutte le sue sofferenze vi sono i suoi genitori e gli altri educatori che ha avuto. Il lavoro di rimozione compiuto in passato in funzione della sopravvivenza rende questa constatazione impossibile, e stavolta contro gli interessi della persona ormai adulta. Ciò che ha dovuto 'non vedere' da bambino, per sopravvivere, continuerà — in determinate circostanze — a 'non poter vedere' per tutta la vita. La funzione salvifica della rimozione, nell'infanzia, si trasforma poi, nell'adulto, in un potere distruttivo. Perché se quella madre divenuta infine un'infanticida avesse potuto vivere consapevolmente l'odio per il padre, se non avesse dovuto rimuovere i sentimenti dell'infanzia, non sarebbe diventata un'assassina. Avrebbe saputo contro chi dirigere il suo odio nel momento in cui, al telefono, era stata presa dalla disperazione, e non ne avrebbe fatto pagare il prezzo a sua figlia. È stata la sua cecità, in passato indispensabile, a farne un'omicida, e la cecità della società nel suo complesso contribuisce a far si che quella donna non trovi l'aiuto che le occorre. Perché nemmeno dopo molti anni di prigione o dopo molti anni d'una terapia dai vaghi intenti pedagogici potrà liberarsi dell'odio latente per il padre e della paura d'essere una bambina che strilla e che va punita. Finché la società — terapeuti compresi — sarà dominata dalla paura di mettere in discussione il ruolo e le colpe dei genitori, quella donna correrà il pericolo di ripetere il suo delitto, di dover continuare a eliminare la bambina urlante che non è potuta essere. Molte delle cose che abbiamo appreso da bambini e che continuiamo poi a sentir ripetere nella vita, sono sorrette da questa paura. Ne fa anche parte l'opinione secondo cui il bambino sarebbe di per sé cattivo, un selvaggio innato che noi possiamo rendere migliore con la nostra cultura. Si potrebbe enumerare una serie intera di concezioni simili, continuamente irrise dalla realtà dei fatti, e che pure non sono facili da scalzare perché giustificano il complesso del nostro sistema educativo. Spesso su queste concezioni si costruiscono delle teorie assai complicate che gli studenti apprendono in tutte le università e che poi, decenni dopo, insegnano a loro volta come professori, benché siano palesemente non vere. Nel mio libro // bambino inascoltato ho spiegato come la teoria freudiana degli istinti e la teoria del lattante crudele di Melarne Klein coincidano esattamente con i concetti che del bambino ha la pedagogia tradizionale. Le asserzioni fatte da Martin Luterò 400 anni fa (cfr. C.H. Mallet, 1986) valgono ancora oggi; e così si legge, per esempio, in uno scritto dello psicoanalista Edward Glover: Se consideriamo queste nozioni in rapporto all'ambiente sociale, possiamo affermare che il bambino piccolo normale è, per tendenza innata, d'un egocentrismo quasi assoluto; è avido, sporco, mosso da istinti violenti e da abitudini distruttrici, eccessivamente orientato sul sesso, brutale nel comportamento, privo d'ogni senso della realtà e d'una anche solo primitiva sensibilità morale; inoltre è opportunista, senza scrupoli, autoritario e sadico nei suoi rapporti con la società (rappresentata dalla famiglia). Se poi ci volgiamo alla personalità criminale, a quella che noi definiamo una personalità psicopatica, constatiamo che molte delle qualità appena menzionate possono, in determinate circostanze, continuare a sussistere anche nella vita adulta. Perché è proprio così: valutato col metro sociale dell'adulto, il bambino piccolo normale è decisamente un delinquente nato (E. Glover, 1970).
Quando contraddico questa tesi del bambino crudele, mi si contrappone spesso la presunta sessualità del bambino. Senza la morale della 'pedagogia nera' (cfr. A. Miller, La persecuzione del bambino, pagg. 15-99),' una simile argomentazione sarebbe impensabile. Perché è questa morale che parte dal presupposto che la sessualità sia un qualcosa di malvagio e colpevole. E non pare che la psicoanalisi si sia finora sbarazzata di simili valuta-zioni. Benché abbia elevato l'asserzione della sessualità infantile a suo dogma principale, non è chiaro quale definizione della sessualità stia alla base di questa concezione. La letteratura psicoanalitica menziona esempi che si riferiscono a fenomeni eterogenei, come per esempio alla curiosità e alla sensualità infantili, al bisogno di vicinanza fisica e di sollecitazione mediante carezze, alla tenerezza e alla dolcezza del contatto che rabbonisce il bambino, al calore del corpo altrui e alle numerose esperienze di piacere che il bambino fa col proprio corpo, area genitale inclusa. Ma tutto questo non è ancora sessualità, anche se gli adulti allevati da bambini nella freddezza, nella severità e nella rinuncia fisica preferiscono definirla tale. Ai tempi di Sigmund Freud l'autoerotismo del bambino era punito nel modo più severo, e quando il bambino si toccava i genitali gli si contrapponevano minacce di castrazione, e questo perché gli adulti proiettavano sul bambino la loro 'impurità' e lo punivano per le loro fantasie proibite. Ma tutto questo non significa affatto che l'autoerotismo infantile, la curiosità e la sensualità debbano essere identificati come sessualità.
La sessualità è la propensione all'accoppiamento dell'essere umano, che comincia a essere sorretta dagli ormoni solo nella pubertà. Se parto da questa definizione biologica, ne devo necessariamente dedurre che questa sessualità non si può riscontrare nel bambino. È però anche ovvio che l'abuso sessuale compiuto ai danni del bambino lascia delle tracce in lui. Così un bambino può simulare un atteggiamento 'sessuale' per non perdere la simpatia dell'adulto. E da questa situazione scaturisce un quadro distorto. Mi ha a lungo assillato il problema del perché lo stato di bisogno in cui si trovano questi bambini e il loro comportamento siano continuamente addotti come prova di una loro colpa. Accade nelle aule giudiziarie e anche nella pratica psicoanalitica. Ci si sbarazza, anche qui, della sessualità 'impura' scaricandola, con la proiezione, sul bambino.
Ma quand'anche la propensione all'accoppiamento fosse già attiva nel neonato — il che è assolutamente insensato — perché la si dovrebbe definire una colpa? La sessualità è una pulsione naturale cui non si può attribuire la responsabilità del fatto che degli individui, in preda a questa pulsione, minaccino o uccidano qualcun altro. Se lo fanno, si rendono colpevoli, ma non perché soggiacciano all'istinto dell'accoppiamento, bensì perché quest'istinto, nella loro storia personale, si è connesso ad altri fattori come la crudeltà, l'umiliazione e l'esercizio del potere, e perché, per effetto di questa storia, tendono a operare in modo distruttivo. Se coinvolgono la sessualità nelle loro azioni distruttive, la colpa non va attribuita alla sessualità. Ho dimostrato, a proposito del caso di Jùrgen Bartsch, come avviene che un essere umano, a causa dei traumi subiti nell'infanzia, sia successivamente indotto a macchiarsi di colpe, e come sia invece fuorviante pretendere di addossarne la responsabilità alla sessualità e alla sua presunta 'istintualità' (cfr. A. Miller, La persecuzione del bambino, pagg. 188 segg.).
Un bambino piccolo non è crudele perché è inerme e perché non è ancora nella condizione di potersi vendicare su altri (fatta eccezione forse per gli animali piccoli) dei tormenti subiti; il bambino non dispone ancora del potere di distruggere la vita altrui, anche se, ovviamente, è senz'altro possibile che coltivi nella fantasia pensieri omicidi e desideri di vendetta.
Una giovane psicopediatra, che opera secondo i metodi di Melanie Klein, mi ha detto un giorno: «Sono sicura che lei non ha figli suoi, altrimenti saprebbe che i bambini non sono affatto innocenti come lei li descrive, ma hanno fantasie crudeli. Lo si può osservare perfino nel lattante che da schiaffi alla madre.»
Non ho detto subito a questa collega che sono madre di due figli, e le ho invece chiesto cosa intendeva dire con 'schiaffi'. Mi ha descritto un bambino che, in un empito di rabbia, colpisce con le mani la madre in faccia. «Gli da perfino dei pugni!» ha aggiunto.
Quella psicopediatra non aveva figli suoi, però aveva potuto ripetutamente constatare di persona questo comportamento, e gliene avevano riferito madri di bambini che aveva in cura. Ho cercato di scuotere la sua sicurezza: quei colpi, ho obiettato, possono anche essere intesi come un gioco innocuo; tutto dipende da come la madre li interpreta. Solo quando lei si sente umiliata e picchiata, quando scambia il bambino coi suoi genitori e ricorre a misure correttive, solo allora il comportamento inizialmente ludico del bambino può volgersi in disperazione e assumere tratti distruttivi. Perché in tal caso il bambino si sente incompreso e non sa manifestare altrimenti la sua disperazione se non colpendo coi pugni la faccia della madre. Quando descrivo una situazione simile a una persona che non sia stata addestrata per dieci anni alla tecnica kleiniana, mi comprende subito. Quella collega invece mi ha guardato con diffidenza e ha commentato: «Melanie Klein ha lavorato per una vita a contatto coi bambini, e le sue teorie si basano su osservazioni dirette.»
Questo è appunto il problema. Con che occhi si fanno queste osservazioni? Una madre vede il figlio che strilla e strepila ed è fermamente convinta che i bambini debbano essere disciplinati. In fondo anche sua madre si è comportata così con lei, e quelle precoci lezioni hanno dimostrato la loro efficacia. Melanie Klein osservava suo figlio e i figli altrui, nella prassi di lavoro, avendo presente lo sfondo costituito dalla propria educazione, e non è stata evidentemente in grado di vedere altro che ciò che aveva a sua volta e a suo tempo appreso da sua madre. Ginecologi, infermiere e genitori osservano anche loro, da sempre, il neonato che strilla e rimangono a loro volta ciechi di fronte al dato di fatto che quegli strilli sono espressione d'una sofferenza psichica e che sono sicuramente evitabili.
La mia asserzione, secondo cui il bambino piccolo è innocente, non ha nulla a che vedere con trasfigurazioni romantiche e non è desunta da chissà quale valutazione filosofica, bensì dalla situazione reale in cui il bambino si trova: è inerme, non è responsabile di altri né è debitore verso qualcuno. E tuttavia questo dato di fatto non contraddice le osservazioni secondo cui i bambini possono comportarsi molto crudelmente, con la stessa crudeltà con cui essi stessi sono stati trattati. Erin Pizzey, la fondatrice degli asili per donne e bambini maltrattati, riferisce che ci sono anche bambini di tre anni ormai non più capaci di azzuffarsi solo per gioco: s'avventano invece l'uno contro l'altro come per uccidersi. Questi bambini rispecchiano nel loro comportamento e in ogni dettaglio la brutalità appresa in casa, e mostrano così inequivocabilmente dove hanno imparato il loro comportamento distruttore.
Succede spesso che dei genitori preoccupati mi chiedano se i bambini possano apprendere la crudeltà da trasmissioni televisive. Io ritengo che un bambino che non abbia della collera accumulata dentro di sé non mostrerà alcun interesse per trasmissioni televisive brutali e sadiche. I film brutali sono invece avidamente accolti da quei bambini cui non sia mai stato consentito di reagire, in casa loro, a certe forme — grossolane o più sottili — di maltrattamento, o che per altre ragioni non siano mai messi nella condizione di poter articolare i loro sentimenti, per esempio per riguardo verso uno dei genitori che si trovi a sua volta in pericolo. E così riescono ad appagare i loro segreti desideri di vendetta identificandosi con quanto avviene sullo schermo. Va anche detto che questi bambini sono già portatori delle premesse d'una futura propensione distruttiva. Che questa si manifesti oppure no, dipende in larga misura dal fatto che la vita offra loro dell'altro che non sia la violenza: vale a dire che incontrino o meno persone in grado di aiutarli. Però il bambino non apprende la crudeltà osservandola (alla televisione, per esempio), bensì sempre e soltanto attraverso la sofferenza e la rimozione.
La scuola della crudeltà s'accoppia spesso all'abuso sessuale. Se per esempio un ventenne masturba un bambino di cinque anni, l'adulto trasmette al bambino una componente violenta e distruttiva dell'esigenza di appagamento sessuale. Il bambino non riesce più a liberarsi da questo modo di soddisfare l'istinto e si ritroverà, da adulto, nell'inconscio stato di costrizione a vendicarsi in una qualche forma su un altro bambino della violenza sessuale subita. È in questo modo che s'insegna, s'impara e si maschera, con tutte le relative motivazioni e razionalizza-zioni, la tendenza distruttiva.
È dall'adulto che il bambino non amato impara a odiare, a torturare e a mascherare tutto questo con menzogne e ipocrisie. E per questo, una volta adulto, dice a sua volta che i bambini hanno bisogno di essere disciplinati e assoggettati coattivamente a delle norme. Questa è già una menzogna, che gli da però accesso alla società degli adulti: una menzogna che pervade l'intera pedagogia e anche la psicoanalisi. Il bambino non conosce le bugie, ed è pronto ad accogliere senza riserve e con massima serietà i concetti di verità, amore e pietà di cui sente parlare durante l'istruzione religiosa che gli viene impartita. Solo quando s'accorge di rendersi ridicolo con la sua ingenuità, allora impara a indossare la maschera dell'ipocrisia. È attraverso l'educazione che il bambino apprende i modelli del comportamento distruttivo, quei modelli che in seguito gli esperti gli spacceranno per istinto distruttivo innato.
E quando qualcuno osa mettere in discussione quest'asserzione, è deriso come un ingenuo, come se non fosse mai venuto a contatto con dei bambini e non sapesse 'quanto possono dare sui nervi'; gli si obietterà inoltre che in ambienti 'progrediti' si dovrebbe ormai sapere benissimo, quanto meno dai tempi di Sigmund Freud, che i bambini vengono al mondo coll'istinto di morte e che potrebbero ucciderci tutti se non cominciassimo 'subito a difenderci'.
Una professoressa mi ha chiesto un'intervista per una sua rivista, a proposito delle critiche che muovo alla psicoanalisi. Non mi è stato possibile rispondere alle domande che mi aveva formulato per iscritto, però ho promesso di soffermarmi su alcune di esse nel mio libro successivo. E lo faccio qui, perché quella professoressa è rappresentativa di un atteggiamento che riscontro spesso: ci si sforza, sì, di acquisire nuove conoscenze, però non si vuole rinunciare assolutamente agli antichi insegnamenti, quelli che a suo tempo, da bambini, si sono appresi dai propri genitori e che sono stati successivamente rafforzati dalle più svariate teorie a livello universitario. Una delle molte domande che mi sono state poste dice, per esempio: «Postulare l'innocenza del bambino è come negare che sia il soggetto attivo dei suoi desideri. Lei spiega quanto è impotente, inerme, dipendente, esposto alla volontà degli adulti. Eppure il bambino non è privo di desideri propri, di fantasie e di capacità di transfert. » Ma com'è possibile definire colpevole un bambino solo perché è «soggetto di desideri, di fantasie e di capacità di transfert»? È ovvio che il bambino, già da neonato, è pieno di bisogni, ma a nessuno verrebbe mai in mente di definire questa condizione una colpa (!), se i nostri genitori non avessero considerato i nostri bisogni e i nostri desideri come pretese fastidiose. Noi abbiamo imparato, sulla nostra pelle, a sentirci colpevoli dei nostri desideri e dei nostri bisogni, e trasferiamo questa nostra fondamentale esperienza nelle teorie.
Nella domanda che ho appena menzionato, questa confusione trova piena espressione. Non si vuole ammettere che il bambino sia il soggetto, lo si preferisce come oggetto della pedagogia. E non è davvero il caso di stupirsi se poi, in questo ruolo, lo si definisce anche colpevole. Non c'è nulla che non si possa arbitrariamente attribuire a un bambino, e — tragicamente — queste etichette possono conservare la loro efficacia per tutta la vita. Il bambino d'una volta, colpevolizzato, è vita naturai durante convinto di essere colpevole e malvagio per il solo fatto di avere dei desideri e delle fantasie. E questa convinzione impedisce poi, nell'età adulta, di vedere che i cosiddetti bambini difficili e cattivi sono stati resi tali dagli altri.
La maggior parte delle persone non mostra il benché minimo interesse riguardo le cause per le quali un bambino diventa quello che è. Se si richiama la loro attenzione sulle cause — la brutalità del padre, il chiudersi in se stessa della madre — replicano: non è una buona scusa perché si metta a rubare. Ciascuno di noi ha superato nell'infanzia qualche momento di grave difficoltà, e non certo per questo è diventato un delinquente.
Però a nessuno interessa che la causa della diversa evoluzione dipende dal grado di simpatia che gli si è saputa conservare. Per questo tipo di persone il problema si riduce solo a: come posso assoggettare mio figlio a una disciplina, come lo devo punire perché diventi una persona per bene, perché non menta, non rubi, non scappi di casa. Si sente spesso esprimere quest'opinione: bambini che siano viziati e che abbiano in casa tutto quello che desiderano, ruberanno il giorno in cui si chiederà loro di lavorare; li si dovrebbe invece abituare a capire che non possono ottenere alcunché se non si impegnano a contraccambiare, li si dovrebbe esercitare presto alla durezza della vita, non si dovrebbero esaudire sempre tutti i loro desideri anche quando c'è la possibilità di farlo, si dovrebbero imporre loro dei limiti, si dovrebbe, si dovrebbe...
Quando io metto in dubbio simili opinioni e dico, per esempio: sono i bambini che devono essere liberi di imporre a noi dei limiti quando pretendiamo troppo da loro, quando li trattiamo male, li umiliamo, allora mi scontro con una grandissima meraviglia. Mi si chiede: ma lei ha figli? Non sa quanto sanno essere cattivi i bambini? Lei idealizza i bambini come se non le fosse mai capitato di vedere un bambino difficile.
Ma certo che ne ho visti, anche nelle cliniche psichiatriche, dove si opponevano ai più arzigogolati sistemi d'educazione rifiutandosi, per esempio, di parlare o di mangiare, oppure strappandosi i capelli perché non c'era nessuno che s'interessasse autenticamente alle loro ansie e comprendesse le loro sofferenze. Tutti si sforzavano di ammaestrare quei bambini, di insegnare loro qualcosa di positivo, come leggere, scrivere, parlare o mangiare; ma non c'era nessuno disposto a comprendere le cause della tragedia della loro esistenza. Quando, durante i colloqui, chiedevo di loro a medici e infermiere, notavo sempre quanto poco il personale d'assistenza e i medici sapessero delle condizioni familiari e delle storie di quei bambini. Tuttavia bastava già quel poco che mi dicevano per intuire il terrorismo psichico che questo o quell'altro bambino aveva sofferto, senza che le persone che me ne riferivano se ne rendessero davvero conto. E questo perché ciò che io definisco 'l'inferno', è per loro la condizione più normale del mondo, e tutto quello che sanno dire è: ma allora ciascuno potrebbe assumere tratti psicotici o autistici, oppure rifugiarsi nel mutismo, perché quasi tutti hanno avuto esperienze analoghe. E si torna così ai presunti fattori biologici innati da contrastare, in qualche modo, con l'educazione e le medicine.
Propositi simili, per quanto siano svolti con impegno e sincerità, implicano solo il pericolo di traumatizzare e confondere ulteriormente il bambino, le cui condizioni reali continueranno a restare non comprese, nonostante tutti quegli sforzi, fino a quando non si vorrà capire fino in fondo in che cosa consiste la crudeltà verso i bambini.
Esistono opinioni acriticamente trasmesse di generazione in generazione, con una sicurezza tale che nessuno si da la pena di verificarle. E non solo perché si temono ritorsioni. Molto spesso non ci si espone nemmeno a questo pericolo, proprio perché si è profondamente persuasi della giustezza delle opinioni tradizionali. Mi spiegherò sulla base di un esempio.
Mi capita spesso d'essere chiamata nelle più svariate cliniche per tenere delle conferenze. Poiché non mi piace monologare, cerco d'instaurare un dialogo col personale ospedaliero, nel senso che chiedo ai presenti di pormi delle domande. Nel corso di questi dibattiti mi succede in continuazione d'incontrare sostenitori della psicoanalisi il cui atteggiamento mi appare tipico. Lodano il lavoro che faccio, mi danno atto dell’impegno a favore dei bambini maltrattati', ma di norma sfuggono loro completamente le conseguenze che le mie esposizioni hanno sulle loro teorie. Senza nemmeno accorgersene, finiscono tutti col recitarmi i loro dogmi, dai quali risulta che esisterebbe l'incesto fantastico, che il neonato non viene al mondo innocente ma mosso da istinti distruttivi, e che nel caso dell'incesto non si produrrebbe una trasgressione, bensì solo un’interazione fra bambino e adulto.
Recentemente m'è capitato di riscontrare qualcosa del genere nel direttore di una clinica che passa, fra i suoi collaboratori, per un uomo molto sensibile e che, quanto meno, si astiene dal prescrivere farmaci dannosi. Le infermiere del suo reparto mi hanno riferito dei traumi tremendi cui erano stati esposti i bambini psicotici e autistici che esse assistevano. Erano dunque informate. E anche il loro primario era al corrente dei fatti. Eppure gli sfuggivano le connessioni. Non era ancora riuscito a rendersi conto che, a fronte di quanto oggi sappiamo a proposito dei maltrattamenti inflitti al bambino, le teorie di Freud sono diventate insostenibili. E come avrebbe potuto capire, del resto? Per mancanza di tempo non legge ciò che i giornali riferiscono a proposito di maltrattamenti di bambini: e non gli interessano nemmeno. Continua a ritenere giusto ciò che ha appreso venti o trent'anni prima, scrive anche dei libri, riceve pazienti, dirige un gruppo di lavoro. Come potrebbe mettere in discussione quello che ha imparato se non ha mai tentato di connettere concettualmente fra di loro le teorie che ha appreso, il lavoro pratico che svolge e le notizie relative ai bambini maltrattati?
Nelle reazioni alle nuove conoscenze non si rispecchiano solo le nozioni apprese, ma anche la tragicità insita nella disparità delle occasioni avute: un bambino amato riceve il dono dell'amore, e con esso anche quelli della consapevolezza e dell'innocenza. È un dono che gli servirà d'orientamento per tutta la vita. Viceversa a un bambino che sia stato traumatizzato, tutto questo viene a mancare appunto perché non ha avuto amore. Non sa cos'è l'amore, scambia continuamente il male col bene e la menzogna con la verità. E quindi consentirà che si continui a disorientarlo ulteriormente.
È un disorientamento che è emerso anche nella discussione, fra gente del mestiere, su un caso concreto: una donna, che nel corso della sua infanzia non era stata esposta alle pressioni di qualcuno che sapesse solo pretendere, e che era stata allevata con molto amore, aveva preso con sé — e successivamente anche adottato — un bambino autistico di nove anni. Aveva saputo dargli molto calore, contatto fisico; assecondarlo, rafforzarlo nei suoi sentimenti, avvertire i suoi bisogni, cogliere i suoi segnali e infine anche comprenderlo. Fra le sue braccia il bambino ha imparato a mostrare i suoi sentimenti, a sperimentare il risentimento contro tutte le prepotenze subite e a scoprire l'amore. Ed è diventato un ragazzo sano, intelligente, molto vivace e aperto.
Ho raccontato questa storia a un gruppo di addetti ai lavori, a persone cioè che si occupano di autismo. I medici mi hanno risposto che l'autismo è una malattia neurofisiologica inguaribile, che l'evoluzione del caso da me descritto dimostrava che non si trattava di autismo, e che quindi c'era stata una diagnosi errata. Gli psicologi, i terapeuti incaricati dell'assistenza familiare e gli analisti hanno sostenuto che la mia storia doveva essere evidentemente una grossolana semplificazione, perché loro conoscevano molti casi di autisti sottoposti per molti anni alla psicoterapia senza che questa avesse portato ad alcun cambiamento: e ci credo! Poi mi hanno anche detto che la mia storia non poteva essere di alcun aiuto per i genitori di figli autistici; anzi, avrebbe fatto sorgere in loro dei complessi di colpa, perché non tutti i genitori sono nella condizione di poter dedicare ai loro figli tanto tempo e tanto amore. Questi genitori hanno, per lo più, altri figli, un lavoro che li impegna: e, dopo tutto, anche loro non sono che degli esseri umani. Ho risposto che quando si tratta di scoprire una verità così importante, non mi sembra rilevante che in qualcuno insorgano o meno dei sensi di colpa.
La storia di quel bambino di nove anni mi ha confermato quanto da tempo supponevo: l'autismo, in un bambino, è una risposta all'ambiente che lo circonda; a volte è anzi l'unica risposta possibile di cui un bambino possa ancora disporre. La guaribilità o meno dell'autismo dipende dalla capacità del nuovo ambiente di penetrare e di comprendere il passato del bambino, e le reazioni degli esperti mi hanno dimostrato quanto sia difficile trovare questo nuovo ambiente adatto. Le resistenze che mi hanno opposto impedivano loro di comprendere quanto la storia che avevo loro esposto poteva e può aiutarci ad affrontare i casi di questi bambini.
In seguito, anni dopo, ho sentito dire di analoghi, anche se ancora rari casi di guarigione di bambini affetti da autismo. È stata anche sviluppata una tecnica, la cosiddetta tecnica dei punti fermi: è una tecnica che si propone di corrispondere al bisogno che il bambino — smarrito, isolato in se stesso, straniato — ha di saldi punti di riferimento. Purtroppo questa tecnica è stata di nuovo accoppiata a pretese pedagogiche, e in questo scorgo gravi pericoli. Quando la madre abbia conquistato la fiducia del bambino, conferendogli uno o più punti di riferimento, e gli imponga poi anche delle pretese educative, il bambino farà tutto quello che è nelle sue possibilità per non perdere più la simpatia della madre. E si è dato effettivamente il caso che alcuni di questi bambini siano poi stati capaci di brillanti prestazioni scolastiche. Che questo non debba necessariamente significare autentica guarigione, lo so quanto meno da quando ho scritto, nel 1979, il mio primo libro. La totale dedizione fisica e psichica della madre d'un bambino autistico può sicuramente compiere miracoli, a patto che essa rinunci a pretese pedagogiche, altrimenti finisce con l'instaurare il dramma del bambino dotato: ed è appunto contro questo conflitto che il bambino si ribella con l'autismo.